L’oratorio di Viggiano (Vigano+Gaggiano) ha partecipato a un’esperienza di campo-lavoro nel’ex ristorante “La Masseria” di Cisliano, sequestrato e confiscato alla Mafia. Grazie a Libera, Caritas e a tutti i ragazzi sta diventando un luogo nuovo, bene comune a disposizione dei più bisognosi.
Il motto di questa “due giorni”? VEDO, SENTO E PARLO!
Mi hanno sempre raccontato la cosa sbagliata, quella comoda. Quella che al momento ti fa sospirare di sollievo ma poi ti cade addosso e ti prende di petto. “Devi impegnarti per realizzare i tuoi sogni!”, e poi rimani fregato da quella stessa voce che ti incoraggiava. Allora inizia il processo di anestetizzazione ; è facile, non devi nemmeno cominciare da solo. Quando qualcuno ti fa male tu copri quella ferita con bende, pur sapendo che non basta per farla rimarginare. Poi non devi far altro che ignorarla, lasciarla lì a marcire, tanto da sotto le bende non la vede nessuno. Ti piazzi addosso la maglietta giusta ed esci, te ne freghi.
Ho fatto così per anni; ho perso il conto ormai delle volte che ho ignorato una domanda pur di non guardare quella fasciatura affrontando la risposta. Ma adesso sta iniziando ad allentarsi, e forse non la voglio mettere a posto.
Un grido mi riporta nella stanza. E’ F. che si è tirato una martellata sulle nocche. Siamo qui da due ore con lo scalpello in mano a staccare tutte le mattonelle del parquet, nonché a romperci qualche osso della mano. F. mi ha detto che una volta ristrutturato, tutto l’appartamento sarà messo a disposizione delle famiglie che ne hanno assoluto bisogno. Non pensavo che il problema dell’avere un alloggio fosse reale, alla fine una casa ce l’hanno tutti. Nel dubbio continuo a picchiare sullo scalpello e a pensare alle persone che ci abitavano. Chissà com’era la loro vita prima che fossero costretti ad andarsene. Forse non si rendevano nemmeno conto della situazione, o la ignoravano. Credo sia difficile andare contro a persone mafiose, soprattutto se familiari.
Nell’arco della mattinata sto ricevendo una quantità esorbitante di informazioni, tra cui quella che ogni sassolino di questo posto (giardino, parcheggio e piscina compresi) apparteneva alla mafia. Poi è arrivato il giorno in cui tutti loro sono stati arrestati e gli affari loschi si sono interrotti. Nonostante la loro assenza vaga ancora nell’aria qualcosa di brutto, di taciuto. Lavorando credo di stare strappando un pezzo di male da questo posto. E’ come se stessi lasciando la mia impronta nella stanza, come se stessi scrivendo con il pennarello indelebile “ho scelto da che parte stare”.
Questo è quello che ho sentito dire da don Massimo ieri: scegliere da che parte stare. Non nel mezzo, non “da qualche parte”; scegliere senza paura, semplicemente. Aprire gli occhi in modo vero e non guardare solo quello che fa comodo, solo le fasciature pulite e superficiali.
Questo mi fa chiedere: io sto scegliendo?
Senza esitare un attimo appena ho finito il mio lavoro esco e vado nel giardino, dove altri stanno ancora lavorando. Vedo persone diverse e legate da qualcosa. Alcuni sono scout di sicuro, con i loro pantaloncini corti in pieno inverno e le bandane colorate. Altri sono miei amici. Infine ci sono alcuni ragazzi stranieri: so che sono arrivati in Italia su un gommone, un viaggio di otto giorni con una sola bottiglia d’acqua da condividere. Sono partiti scappando da pistole puntate sulle loro schiene, lasciandosi dietro la porta chiusa di casa, le scarpe pronte a essere consumate. Li osservo, sono in piedi sul tetto della stalla a tagliare rami. Vedo sorrisi pieni di fronte a questa fatica, corpi giovani e nel pieno della vita che si trascinano dietro dolori di anni. Ma sorridono per la gioia di avere amici con cui condividerla, quella fatica, una nuova famiglia. Don Massimo li ha accolti, e ora vivono con lui. Mi sconvolge il fatto che a diciotto anni dovranno andarsene, se vorranno. Dove andranno? Io a quell’età sarò ancora con i miei genitori, abituata a rientrare a casa e trovare qualcuno che
mi prepara la cena. Non ho una risposta. Vedo solo che si impegnano nel sistemare un luogo che era in mano a persone paragonabili a quelli che li hanno sfruttati. E’ incredibile il fatto che il loro lavoro servirà a dare una casa a nuove famiglie quando loro per primi l’hanno dovuta abbandonare.
Penso che mi sento piccola di fronte a questa grandezza di cuore.
Prendo un badile e mi metto a staccare le erbacce dal terreno. Non voglio essere da meno, voglio fare, dare tutto e prendere posizione e non avere paura. Non avere paura!, continuo a ripetermelo. Decido di diventare tutt’uno con gli altri. Un solo corpo, una sola comunità.
A fine giornata arriva la famiglia che andrà a vivere in uno dei nuovi appartamenti ristrutturati. Mi trovo di fronte a una felicità disarmante, e non ho più paura. Forse capisco in parte il perché di tutta la giornata.
Mi chiedo: cosa mi sto portando a casa? Non voglio che sia un ricordo, qualcosa di piccolo che riflette luce su una parte della mia vita. Voglio che tutto sia così. Non più false bende a coprire esperienze, non più indifferenza. Voglio vederle le mie ferite, rendermi conto di ogni cosa e agire in prima persona. Ogni mia esperienza voglio che abbia un senso, per quanto dolorosa. Penso a Lea Garofalo, a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, a don Pino Puglisi. Non hanno visto e fatto esperienza dei comportamenti più infimi e meschini? Non hanno forse valorizzato tutto ciò che incontravano? Si, mi rispondo.
E così metto a nudo tutta la mia debolezza, e mi faccio vedere umana.
Miriam, Federico, Anna, Lorenzo, Arianna, Francesca,
Matteo, Susanna, Alessandra, Giulia